Detraibilità Iva: attenzione alle presunzioni indiziarie

di Fabio de Muzio
detraibilità iva

L’ordinanza n. 12590/2020 della Cassazione affronta il tema della detraibilità Iva. Per scongiurare la qualifica di “operazioni inesistenti” è necessario superare le presunzioni indiziarie.

L’anno da poco conclusosi, al di là delle note vicende legate all’emergenza COVID-19, si è arricchito di importanti quanto silenziosi spunti di riflessione fiscali. Questa estate, mentre l’attenzione del legislatore e dei professionisti era rivolta alla genesi dei Decreti Ristori, la Corte di Cassazione con ordinanza n. 12590 del 25 giugno 2020 ribadiva l’importanza delle presunzioni indiziarie ai fini della detraibilità IVA per non incorrere nelle “operazioni inesistenti”. Analizziamo quindi il contenuto dell’ordinanza, da cui trarre utili spunti per una buona difesa in caso di contenzioso.

Detraibilità Iva: le tre presunzioni indiziarie da smontare

Un operazione è inesistente e quindi porta all’indetraibilità dell’IVA, quando non sono smontate le seguenti presunzioni indiziarie:

  • ambiguità nell’individuazione del soggetto passivo IVA;
  • indisponibilità presso il cedente dei beni oggetto della transazione;
  • obblighi di versamento e dichiarazione non assolti dal cedente.

Sul contribuente, prima di esercitare il diritto alla detrazione, grava perciò l’onere di fugare ogni eventuale dubbio in merito alla regolarità dell’operazione posta in essere.

Operazioni inesistenti: la CTR si esprime sull’onere della prova

Proprio sull’incombenza dell’onere probatorio si è svolto il giudizio che ha portato alla summenzionata ordinanza. Infatti, esso trae origine dalla sentenza n. 3165/2015 della CTR Emilia-Romagna favorevole al contribuente. Nello specifico si tratta di una società di persone, successivamente cessata, che nel 2006 ha acquistato sottocosto delle autovetture, portando in detrazione la relativa IVA. Il cedente, tuttavia, era una società terza priva di struttura organizzativa.

L’Ufficio, infatti, sin dall’emanazione dell’atto di accertamento, nel quale poneva a recupero maggiori imposte IRPEF, IVA e IRAP, qualificava come inesistente l’operazione, sostenendo che:

  • la vendita sottocosto era frutto di un meccanismo fraudolento posto in essere dal soggetto cedente;
  • l’esistenza di tale meccanismo, in virtù dei predetti indizi, era conoscibile dal contribuente.

Questi risultava soccombente nel giudizio di primo grado, nonostante una sensibile riduzione della pretesa impositiva a seguito di accoglimento parziale di autotutela. Di seguito, eccepiva dinanzi alla competente CTR la mancanza di motivazione dell’accertamento poiché sprovvisto di elementi probanti la conoscenza del meccanismo fraudolento.

I giudici regionali, come detto, accoglievano le doglianze dell’appellante motivando che le percentuali di sottocosto applicate (range tra il 4,40% e il 13,78%), fossero troppo basse per poter insinuare nel contribuente un vago sospetto che fosse parte di un meccanismo evasivo. Inoltre, secondo i giudici regionali, pur non essendo presente un’organizzazione di vendita vera e propria, l’operazione non può essere qualificata come inesistente. Ciò in quanto l’Ufficio non ha fornito sufficienti elementi. Alla luce di tali conclusioni appare perciò evidente come i giudici regionali abbiano di fatto investito l’Ufficio dell’onere probatorio in materia di presunzioni.

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Detraibilità Iva: il richiamo alla sentenza della Corte di Giustizia Europea

La Suprema Corte, interpellata sul punto dall’Ufficio, ha richiamato la sentenza Mahagèben KFT e Pètèr David del 21 giugno 2012 della Corte di Giustizia Europea. Essa fornisce infatti la corretta interpretazione degli artt. 167, 168 lett.a), 178 lett. a), 220 punto 1 e 226 della DIRETTIVA 2006/112/CE, in materia di requisiti formali della fattura e del diritto alla detrazione IVA.

Tali articoli, in base alla sentenza, sono da interpretare come ostativi delle prassi nazionali poiché le Amministrazioni finanziarie dei singoli stati membri possono “stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazione effettuate da Stati membri e da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera”.

Le conclusioni della Cassazione: l’onere della prova grava sul contribuente

Nell’ottica del contrasto all’evasione fiscale, chiosano i giudici di legittimità, va letto perciò il corretto utilizzo da parte dell’Ufficio delle presunzioni indiziarie previste in materia di IVA dall’art. 54 D.P.R. 633/1972. Difatti il contribuente, pur vedendo rispettati i requisiti formali posti nella Direttiva 2006/112/CE, non si è munito di documentazione idonea a verificare che il soggetto cedente:

  • fosse effettivamente un soggetto passivo;
  • disponesse materialmente dei beni oggetto della transazione;
  • fosse in regola con gli obblighi di dichiarazione e versamento dell’IVA.

La Suprema Corte sottolinea come, ad esempio, la vendita sottocosto delle autovetture costituisca sempre un indizio di evasione a prescindere dalle percentuali applicate dal venditore. Sul contribuente, al quale è richiesta la diligenza media di un imprenditore onesto, grava perciò, in presenza di indizi tali o similari, l’obbligo di accertarsi della regolarità dell’operazione commerciale e di provarlo ove richiesto.

Nel caso di specie, infine, erano molteplici gli indizi che avrebbero potuto sollevare dubbi sulla bontà dell’operazione (assenza di organizzazione, vendita sottocosto, indisponibilità delle vetture presso il venditore). La CTR, tuttavia, non ha tenuto in considerazione la consolidata giurisprudenza comunitaria, andando a svilire l’istituto della presunzione. La Suprema Corte ha perciò cassato la sentenza regionale, in cui è stato violato il principio dell’inversione dell’onere della prova, rinviando il giudizio alla CTR dell’Emilia Romagna da adirsi in diversa composizione.

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